Un vecchio mangianastri passa un adagio tedesco, di quelli popolari che già ascoltandolo ti immagini la scena: un mucchio di gente in abiti tradizionali, fiumi di birra, tante risate e una diffusa atmosfera festosa.
È il primo pomeriggio, l’ora più calda, quella giusta in questo principio di autunno per finire il lavoro iniziato la mattina: un anziano ripete i gesti con la sicurezza di chi li fa da sempre. Prende un ciocco di legno, lo mette su una macchina spaccalegna, lo taglia in quattro parti, lo toglie e lo poggia su una cariola che sta dietro di lui.
Mi fermo a guardarlo rimanendo in disparte, la mia presenza e quella dell’artista non lo disturbano e continua il suo rituale: prende un ciocco, lo taglia, lo posa e poi li ripone nella legnaia. E ricomincia.
Mi guarda, si ferma un secondo mi sorride e sussurra:“quest’anno sarà un inverno freddo”. Raccolgo il velato invito e mi allontano.
Poco più in là, nel boschetto proprio lì sotto, giovani ciclisti si esibiscono in performance che tradiscono un’esperienza che va oltre la loro età anagrafica. Bici fiammanti con ammortizzatori di ultima generazione, ruote e cerchioni nuovi di zecca. Per quanto sia un po’ distante, sento la loro energia vitale e mentre la macchina da presa continua a girare, ridono e danno prova di bravura davanti al loro maestro.
“Ogni lunedì dell’estate ci troviamo qui e gli insegno ad andare in bici. Poi a fine corso ci andiamo a divertirci tutti insieme su quel cucuzzolo”, mi dice orgoglioso il maestro. “Siamo contenti che ci riprendiate e ci fotografiate in questo modo, ci sentiamo liberi e non artefatti”, conclude. Artefatto. Ecco una parola che ha del magico.
Bene, per oggi ho visto e sentito molto. Adesso posso prestare attenzione all’ingombrante sequela di interrogativi per la quale, ancora una volta, sarà difficile trovare risposte sensate.
Perché se c’è qualcuno che ha capito e interpretato in modo nuovo e innovativo il racconto dei luoghi e delle persone che li abitano, c’è anche qualcuno che si ostina a mettere in circolazione roba come questi video?
Sebbene il web ci dia la possibilità di sapere e vedere come comunicano gli altri paesi, nonostante anche da noi professionisti, studiosi e ricercatori abbiano suggerito di abbandonare questa strada, non c’è ministro che tenga, si continua sulla stessa scia. Perché questa comunicazione viene da lontano e nel tempo ha raccolto sotto lo stesso tetto famiglie diverse tra loro.
E quella di cui parlano è piuttosto l’Italia in cui gli italiani non si ri-conoscono: soldi buttati in campagne promozionale sterili, miopi e stereotipate e autoreferenziali. Buchi nell’acqua che ci imbarazzano, luoghi e storie che sono altro da come le mostrano.
Ma c’è una little Italy che è già raccontata e promossa con modalità diverse, nuovi linguaggi per nuovi mercati, nuove metodologie per nuovi consumatori (e non penso ai BRIC!).
E’ quello che abbiamo visto in questi giorni assistendo al making of del terzo capitolo del Digital Diary, prodotto da can’t forget italy .
Non vi racconteremo il lavoro e la professionalità che ci sono dietro i 2 minuti e trenta di video finale. Format e artisti hanno già una notorietà guadagnata sul campo.
Vogliamo piuttosto dirvi dell’umore degli abitanti dei luoghi e della loro partecipazione durante le riprese e dell’atmosfera di benessere che crea la libertà di un racconto autentico.
Dei luoghi raccontati invece, beh di quelli, da nord a sud dello stivale, è davvero difficile trovarne uno brutto e il Trentino non fa eccezione.
Che la comunicazione innovativa e virale sia uno strumento di salvezza per il nostro paese abbiamo già detto, ma oggi, dopo aver visto anche il backstage di Digital Diary, abbiamo la certezza di essere nel giusto.
Sperando che chillilà s’imparino.